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MARANELLO, LA FERRARI E LA CITTÀ

La vicenda della costruzione della cittadella Ferrari a Maranello rappresenta un’eccezionalità non solo nel panorama locale, tanto se analizzata dal punto di vista prettamente architettonico, quanto se la si considera in relazione al ruolo che l’architettura riveste nei confronti della comunicazione dell’immagine aziendale; aspetto questo non secondario data l’importanza del marchio automobilistico nel panorama mondiale. Seppur dettato da ragioni essenzialmente di opportunità, lo spostamento della produzione da Modena a Maranello consente allo stabilimento Ferrari di costituirsi come luogo della produzione isolato e autonomo rispetto alla città, per certi versi riconducibile alle esperienze della città-fabbrica sorte all’inizio dell’era industriale. Secondo V. Gregotti1 infatti, è proprio la categoria della “separazione”, a essere una chiave di lettura fondamentale per chi volesse interpretare uno dei passaggi epocali della costruzione della nostra modernità. Senza voler ripercorrere le vicende del paternalismo industriale di inizio XX secolo e limitandoci a considerare l’evoluzione del modello della più moderna Company town, la cittadella Ferrari sembra differenziarsi dai riferimenti più importanti. Non si tratta, infatti, né di una comunità sul modello eporediese-olivettiano, nella sua ricercata integrazione tra territorio, architettura, produzione e società, né, riferendoci a casi più vicini ai giorni nostri, di studiati processi di “costruzione”, mediante l’architettura, di un marketing aziendale2.

Vista aerea della cittadella con viale E. Ferrari. (Foto Ferrari SpA)

Tutto sembra rivolto, piuttosto, a mettere l’architettura al servizio della produzione. L’immagine architettonica non contribuisce a consolidare quella del “marchio di fabbrica”, in quanto quest’ultimo, è già dotato di una sua forte riconoscibilità. Le architetture della cittadella Ferrari sembrano mostrare, piuttosto, la volontà di costruire un luogo tecnologico, coincidente con il contenuto tecnologico del prodotto. Come l’innovazione è nascosta all’interno dell’automobile, anche gli impianti industriali Ferrari non si mostrano spesso alla città, né sui cataloghi. Coerentemente con queste considerazioni, relative all’immagine dell’industria, nelle architetture che compongono la cittadella Ferrari, in particolare quelle degli ultimi quindici anni, si manifesta un generale effetto di smaterializzazione, questa volta in analogia con altri importanti casi come per esempio la “Fabrica” di Benetton, coincidente con l’espressione della condizione immateriale del sapere necessario alla realizzazione di un prodotto e della delocalizzazione dell’economia globale. Non più solo l’industria pesante: accanto a questa si fa largo la necessità di realizzare luoghi in cui far circolare il sapere e la conoscenza, sviluppare idee e incontri, aggiornando il modello di company town ottocentesco, nella direzione del “tecnopolo”3.

Vista dell’ingresso del Museo Ferrari di Maranello. (Foto IBC)

A Maranello ciò inizia fin dagli anni Settanta, quando, su progetto dell’architetto modenese Tiziano Lugli, la casa automobilistica decide di realizzare un centro culturale aperto anche alla città, da affiancare ai luoghi della produzione dell’automobile. L’edificio si compone di un traliccio metallico tridimensionale, che sostiene la copertura in alluminio realizzato mediante tubi “Mero”. La struttura comunica un effetto di forte astrazione, quasi a definire solamente uno “spazio” primario, in cui il tamponamento svanisce in favore del prevalere dell’immagine del giunto e dell’elemento componibile, abbandonando la facciata, come luogo di rappresentazione simbolica. All’interno di questo si rende visibile il volume cilindrico, in pannelli d’acciaio, che ospita la sala a gradoni destinata gli eventi culturali, anticipato dalla parete d’ingresso anch’essa curvilinea in vetrocemento. Il legame tra città e fabbrica, fin dagli anni Sessanta, si istituisce anche attraverso altri canali che rinsaldano il rapporto tra produzione e territorio, in particolare attraverso lo spostamento dell’IPSIA Ferrari (Istituto Professionale Statale per l’Industria e l’Artigianato) in un edificio non distante dagli stabilimenti. La fondazione della scuola risale a circa due decenni prima quando, per volere di Enzo Ferrari, si decide la creazione di un istituto per sopperire alla mancanza di operai specializzati. Nel 1965 diventa statale costituendo un importante lascito, tuttora in attività, per la formazione e la specializzazione dei lavoratori dell’intera provincia. La progressiva determinazione di un carattere pubblico dello stabilimento industriale prosegue, a partire dal 1984, con l’idea di un museo per iniziativa dello stesso Enzo Ferrari. Inizialmente il progetto, di cui viene incaricato nuovamente Tiziano Lugli, s’innesta sul precedente centro civico e ricreativo con un volume aggiunto, collegato al preesistente da un atrio comune con ingresso triangolare, realizzato secondo la stessa logica costruttiva del precedente. Al piano terra doveva trovare spazio l’esposizione delle auto, collegata visivamente con la biblioteca, posta al primo piano. In seguito, nel corso della realizzazione, lo spazio del museo viene esteso fino a occupare l’intero edificio, che assume la valenza di una “galleria”, luogo di messa in mostra di tutto il mondo Ferrari, dalle vetture, al ciclo della produzione, dai personaggi della storia della casa automobilistica a una serie di cimeli messi a disposizione da Enzo Ferrari, che scompare a lavori quasi ultimati. Il cantiere subisce un naturale arresto, per poi essere inaugurato nel 1990. Nemmeno il museo, quindi, uno dei luoghi per eccellenza, sul quale si è esercitata l’architettura contemporanea nella costruzione dell’immagine, cede alla firma dell’architetto internazionale, nemmeno se applicata a uno dei marchi più famosi del mondo.

Vista notturna della Galleria del Vento progettata da Renzo Piano. (Foto Ferrari SpA)

Discorso analogo può essere fatto per la realizzazione degli altri edifici che compongono la cittadella Ferrari4: la nuova officina meccanica (2002), il reparto di verniciatura (2004), realizzate da M. Visconti, il centro sviluppo del prodotto di M. Fuksas (2004), a cui certamente si può aggiungere il nuovo complesso della Logistica e Gestione Sportiva dello studio Sturchio and Partners (2003) costruito a Fiorano. Nel primo caso, l’immagine del fabbricato è definita da un portico frangisole che protegge, in particolare sul fronte sud, le pareti vetrate, contribuendo alla realizzazione di quel comfort ambientale, ricercato nella progettazione di tutto l’edificio.

Vista dell’edificio della Nuova officina meccanica progettata da Marco Visconti. (Foto Ferrari SpA)

Il progetto di Fuksas restituisce l’idea di un più contemporaneo luogo del lavoro. La trasparenza è funzionale alla creazione di un’idea di comfort, data dall’integrazione degli spazi di lavoro e di incontro con l’ambiente circostante. L’edificio, organizzato intorno a spazi aperti, è conformato da sistemi che favoriscono la relazione, tanto visiva quanto fisica, tra i lavoratori che in esso vi operano. In questo contesto, l’unica concessione all’aspetto iconico dell’architettura, è visibile nella galleria del vento di Renzo Piano (1997). Qui l’aspetto macchinistico dell’edificio è esaltato attraverso l’accentuazione plastica delle parti tecnologiche, tanto da farlo risultare come un grande motore d’automobile, che spicca sul paesaggio della campagna circostante.

Vista del Centro sviluppo del prodotto progettato da Massimiliano Fuksas. (Foto Ferrari SpA)

Se, come si è detto, il successo della Ferrari è imprescindibile dalla qualità della sua architettura, sembra possibile riconoscere un atteggiamento simile anche al di fuori della cittadella produttiva. Lo dimostra la realizzazione della biblioteca pubblica della città: Mabic5 (Maranello Biblioteca Cultura) inaugurata nel 2012. La necessità di sopperire all’inadeguatezza del precedente edificio è diventata qui, attraverso la qualità del progetto affidato a seguito di un concorso ad Arata Isozaki e Andrea Maffei, occasione per rivitalizzare l’intera area e creare un luogo di aggregazione per la città e i suoi abitanti. Il basso corpo di fabbrica a un piano, dalla pianta sinuosa a contatto con uno specchio d’acqua artificiale, si inserisce nel contesto attraverso un significativo cambio di linguaggio rispetto a ciò che vi è intorno; tuttavia è la forte trasparenza delle pareti a qualificare lo spazio interno e a connotarlo, al tempo stesso, di una forte valenza pubblica.

 

NOTE

1. V. Gregotti, Company Town: provvedere e separare. Lettera aperta a Giorgio Agamben, in F. Bucci (a cura di), Company Towns, «Rassegna» n. 70, 1997, pp. 4-5.
2. Si pensi, solo per citare alcuni dei casi più recenti e noti, al contributo fornito dall’architettura, all’immagine di marchi come Vitra e Prada, in cui la firma dell’architetto e la rappresentatività dell’edificio, sono fondamentali nelle strategie comunicative dell’azienda.
3. G. F. Elia, Dai villaggi industriali ai tecnopoli, in F. Bucci (a cura di), Company Towns, «Rassegna» n. 70, 1997, pp. 6-15.
4. F. Irace, La cittadella Ferrari, in «Abitare», n. 426, 2003, pp. 174-183.
5. Si veda M. Sintini, Nuova stazione Alta Velocità di Bologna e Maranello Biblioteca Cultura, in «Paesaggio Urbano», Gennaio-Marzo n. 17, pp. 1-15, Mabic: Maranello Biblioteca Cultura, Maranello, 2012.

 

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