22/11/2012

MUSEI CIVICI/3 – IL TESTO DI REMO BODEI PER “ALTRO DA COSE”

L'introduzione del filosofo per il catalogo dell'opera collettiva di Claudia Losi

“La nostra vita è costellata di oggetti che rivestono per noi un significato speciale, che segnano momenti culminanti o che silenziosamente ci hanno accompagnato per anni nel corso dell’esistenza. Noi li ricordiamo e li investiamo di affetti diversi: nostalgia, felicità, mestizia, dolore. Talvolta li perdiamo o li dimentichiamo in qualche cassetto o in soffitta, ma poi li ritroviamo o sembra che siano loro a cercarci”. Si apre con questa frase di Remo Bodei il catalogo dell'opera d'arte collettiva realizzata dall'artista Claudia Losi con la partecipazione di 175 modenesi. Ecco il testo del filosofo, intitolato “Cose e affetti”.

“In quanto oggetti, comprati o costruiti da noi – prosegue Bodei, - essi ci sono dapprima indifferenti, li usiamo con non curanza o li scambiamo con altri. È solo quando li frequentiamo, li amiamo o li odiamo, che acquistano quasi una loro personalità, che entrano nel nostro orizzonte, che formano una sorta di satelliti che ci circondano intellettualmente ed emotivamente. È allora, che per una specie di alchimia, gli oggetti si trasformano in cose, ossia – seguendo l’etimologia del termine, che deriva dal latino causa, come nella nostra espressione “battersi per la causa” – in entità che ci stanno a cuore e per cui interessiamo e ci impegniamo”.

“Non dobbiamo confondere l’oggetto con la causa, anche se il loro strato materiale è comune. L’oggetto è, letteralmente, ciò che ci sa di fronte, che ‘obietta’ al soggetto, che lo sfida, fino a che il soggetto non lo ingloba, lo fagocita e lo assimila. La cosa, invece, mantiene la sua relativa autonomia e su di essa si depositano idee, passioni e simboli. Per fare un esempio chiarificatore, una bambola è un oggetto di plastica o di pezza che i genitori comprano in un negozio a una bambina, ma, dopo poco, la piccola trasforma questo oggetto in cosa, attribuendole nome, qualità e sentimenti, fino al punto di accudirla e dialogare con lei. Si dirà: sono giochi e illusioni della fantasia. Certo, la fantasia riempie di colori e di significati la nostra vita, è alla radice delle passioni, ma non si tratta solo di questo”.

“Se liberiamo le cose dalla polvere della banalità e dell’oblio, che ne nascondono la natura e la storia, esse rivelano i loro significati storici, teorici o affettivi. Le cose ci inducono, infatti, a innalzarci al di sopra della mediocrità del quotidiano in cui cadremmo se non investissimo in loro – tacitamente ricambiati – pensieri, fantasie e affetti. Esse ci rivelano non solo il nostro rapporto con la natura da cui provengono (pietra, metallo, legno, osso, filamenti vegetali, pelli animali, plastiche derivate dal petrolio), ma anche i lasciti della civiltà e le relazioni sociali. Guardandole in tale prospettiva, la nostra anima entra in contatto con un mondo più vasto e, spesso, più coinvolgente dei semplici, inconsistenti fantasmi dell’interiorità. In questo modo, veniamo, infatti, più direttamente a contatto con quanto ci circonda e costituisce il mondo umano, opera di miliardi di persone (i morti e i vivi) che hanno plasmato la realtà lasciando nelle cose tracce che sopravvivono al loro lavoro e alla loro scomparsa fisica”.

“Privatamente, ciascuno di noi adotta degli oggetti e lentamente li trasfigura in cose che gli parlano di lui, di persone care o di eventi che lo hanno toccato. Sono spesso cose modeste, come la maggior parte di quelle raccolte e illustrate, nella mostra organizzata da Claudia Losi ai Musei Civici di Modena: pezzetti di intonaco o bottiglie (ma che ricordano il recente terremoto che ha colpito l’Emilia), fischietti di quando si era ferrovieri, fazzoletti da collo di viaggiatori, origami giapponesi, pistole ad acqua dell’adolescenza, ferri da stiro della nonna, falci appartenute ai padri. Insomma, una varietà di reperti che hanno due storie, non sempre coincidenti, quella personale di chi li ha portati al museo e quella delle cose stesse nella loro origine”.

“Claudia Losi, aiutata dal personale dei Musei e dai volontari delle scuole modenesi, è stata brava nel documentare i reperti, ma è stata artisticamente geniale con l’intuizione di inserirli in sfere avvolte in filo nero sino al punto da farli scomparire dalla vista. La sua idea è che questi “bozzoli” possano rappresentare una sorta di grembo materno che potrà rigenerarli trasformati e che in questa chiusura le cose possano mantenere la loro alterità, come nel caso del bambino rispetto alla madre”.

“Aggiungerei che la procedura da lei inventata rinvia anche ad altri significati impliciti, in quanto simboleggia l’opera infaticabile dell’oblio che, con il suo filo nero, ricopre i ricordi e sigilla gli affetti. Tuttavia, proprio perché è un filo, esso può ricondurre, come quello di Arianna, a ritrovarli nel labirinto dei ricordi. Per analogia, questa tecnica si può paragonare ai “ricordi di copertura” (Deckerinnerungen) di cui parla Freud a proposito di un suo paziente che della sua prima infanzia, tra i pochissimi ricordi, apparentemente banali, conserva quello di una bacinella di ghiaccio. Si scoprì dopo, che tale cosa stava sul comodino della nonna moribonda. Il ricordo nascondeva, dunque, quello della morte della persona amata, ma lasciava una traccia, un filo, per ritrovarne la memoria. Non sempre l’oblio vince definitivamente”.

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